Salwah sorgeva su una di quelle collinette, circondata da
palmizi e brevi mura merlate che proteggevano case e minareti affacciati su una
verde distesa erbosa.
Ibrahim tese la mano proprio in quella direzione.
“E’ laggiù che troveremo Hamed e gli altri prigionieri. –
disse, poi aggiunse – Poco più di una dozzina, ci hanno informati.”
Lo spettacolo cui poco più tardi i due amici si imbatterono,
proprio all’uscita della cittadina, era davvero lugubre e sinistro: la fila dei
condannati delle prigioni di Salwah.
La scortavano due guardie armate di fucili, pugnali e frusta, che ogni tanto facevano schioccare
minacciosamente. I prigionieri, una teoria di indumenti disuguali e laceri,
erano a piedi nudi e le caviglie erano imprigionate in due cerchi di ferro
assicurati ad un’asta che rendeva lenta e assai penosa l’avanzata. A rallentare
la marcia, però, era anche la lunga catena che legava l’uno all’altro quegli
infelici, attraverso quadrati collari
di ferro così pesanti da provocare cicatrici ed arrossamenti a collo e spalle.
Se anche fosse venuta loro qualche tentazione di fuga, quell’inumana tortura
avrebbe spento ogni intenzione e speranza.
Suo malgrado, pur avvezzo ad ogni genere di brutture, il
lord ebbe un brivido che gli attraversò la schiena; Ibrahim, al suo fianco,
trattenne un’imprecazione.
I due si accostarono al ciglio della strada e fermarono i
cavalli; la colonna dei condannati si
trascinò, passando davanti a loro. Qualcuno sollevò lo sguardo, torvo e
rassegnato; altri sguardi, però, scintillavano di una luce rabbiosa e ribelle.
“Quello è Hamed. – proferì
Ibrahim con un cenno del capo, indicando l’ultimo prigioniero legato a
quella catena – Devo farmi riconoscere e dirgli di tenersi pronto.” e balzò giù
di sella, muovendo un passo in avanti.
“Aspetta! – lo fermò il compagno – Ho già provveduto a cosa
fare. - spiegò smontando anch’egli – Non è la carità del buon musulmano a
nutrire questi disgraziati? Ho portato del pane da far distribuire. Potremo
avvicinarci senza destar sospetti.”
Così fecero. Presero del pane dalle bisacce poggiate sulle
groppe di uno dei muli del seguito e si
fecero avanti per la distribuzione. Pane fresco e profumato che svegliò anche
l’appetito degli uomini di scorta i quali si avvicinarono per controllare;
Ibrahim aveva raggiunto il cugino e gli stava porgendo una grossa forma di pane
confabulando con lui sottovoce.
Le mani si tesero, grandi e piccole, rugose e giovanili; di
vecchi, giovani e perfino adolescenti e gli sguardi si accesero nelle orbite
illividite; risveglio di espressioni sulle facce inebetite da maltrattamenti,
vergogna e rassegnazione.
D’improvviso il fragore di zoccoli sul selciato irruppe su
quella teoria di miseria e disperazione
e un gruppo di cavalieri lanciati al galoppo arrivò tra uno svolazzare di
mantelli e gualdrappe colorate. Arrivò
con i fucili in mano, branditi in alto sulle teste e appena caricati al galoppo. Come solo loro sapevano fare: gli
uomini della tribù dei Kinda.
Di colpo si fermarono. Tutti insieme. Di fianco alla
colonna dei prigionieri. Terribili e minacciosi, mentre i cavalli si
irrigidivano, puntando i garretti e spalancando froge e bocche tirate dal morso.
Mentre Rashid ed Ibrahim correvano su e giù lungo la
colonna, gli altri liberarono i prigionieri dalla catena, poi li presero in
groppa dietro di loro e così come erano
giunti, fulminei e turbolenti, si allontanarono.
Sir Richard ed Ibrahim
li seguirono subito dopo, a loro volta inseguiti dagli sguardi allibiti
degli uomini della scorta che, nel pragmatico fatalismo tutto arabo,
accettarono di buon grado la legge del più forte.
(continua)
brano tratto da: "DUNE ROSSE - Fiamme sul deserto"
Nessun commento:
Posta un commento