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Seduti in
circolo nel grande piazzale davanti alla
tenda di Rashid, tutta la tribù era
presente per festeggiare il suo ritorno e quello di Jasmine: bianchi mantelli,
abiti sgargianti, pugnali, fucili e strumenti musicali; alle loro spalle la
luna illuminava la sabbia.
Sir Richard,
gambe incrociate, pugnale infilato alla cintola, parlava con lo sceicco Harith,
seduto alla sua destra. Parlavano dell'ultimo acquisto di armi, una mezza
dozzina di fucili provenienti dall'Italia,
che solo da pochi decenni si era riunita. Armi giunte precisamente da
quello che il professor Marco Starti, l’amico archeologo italiano partito per
una spedizione in Egitto, chiamava Stato Pontificio, cui qualche trafficante
era riuscito a portar via.
A Sahab
arrivavano armi da ogni parte d'Europa, come ad ogni altra tribù del deserto,
le quali facevano affari con italiani, francesi, tedeschi e inglesi,
naturalmente.
Di fucili non
ve n’erano mai abbastanza, pensava il lord ed era vitale averne: era una forma
di discussione, di far valere le proprie ragioni.
“Il fucile è
la mia forza e la mia giustizia.” soleva ripetere Ibrahim, il vice del rais.
E non aveva
torto, pensava il lord: le vessazioni e la corruzione del governo centrale, a
Doha, avevano cancellato ogni fiducia nell’autorità e tutti si facevano ragione
e giustizia da sé, facendo del fucile una necessità. Tale che averlo era più
necessario che usarlo.
Harith mostrò
il fucile che teneva in mano e il lord non riuscì a trattenere la mordace e
pacata ironia di cui era dotato:
"Ecco una
canna che è passata dal servizio di Cristo a quello di Allah!" disse, da
buon miscredente qual era.
“Lo proveremo
sulla scorta dei deportati di Salwah.” disse lo sceicco, mentre osservava
attentamente lo stemma pontificio impresso sul calcio del fucile.
“Di che cosa
parlate, sceicco?” domandò l’inglese.
“Di assaltare
la scorta e liberare i prigionieri del Sultano, a Salwah. –
all’espressione dubbiosa del suo
ospite, Harith spiegò – Ogni giorno vengono condotti fuori della prigione per
soddisfare i propri bisogni e noi assalteremo la scorta e
libereremo i prigionieri. – e prima che il lord replicasse, continuò – Tra i
condannati della prigione di Salwah c’è Hamed, cugino di Ibrahim, della tribù
dei Kaza. – lo informò – Con lui ci sono altri uomini di quella tribù, sorpresi
durante una razzia.”
“Corrono
pericolo di vita?’” domandò il lord.
“Oh, no! –
Rashid, seduto alla sinistra del suo sceicco, intervenne nella conversazione;
anch’egli maneggiava la sua nuova carabina a ripetizione come fosse una bella
donna – No! Il sultano di Doha ha creato con la prigionia dei suoi sudditi una
fonte di guadagno assai lucrosa. La condanna a morte, invece, anche per i delitti
più gravi, sarebbe pur sempre una pratica onerosa e i Governatori delle
province lo appoggiano, perché si ingrassano con lui.”
“Mantenere e
nutrire tanta gente – osservò l’inglese . deve essere ugualmente oneroso.”
“Solo per la
famiglia o per la tribù del condannato. – precisò Ibrahim, appoggiando sul
tappeto davanti a sé la tazza di the con cui aveva accompagnato il cosciotto di
agnello e pulendosi la bocca sul bordo della manica della casacca color fieno
bruciato – Quell’insaziabile avvoltoio tiene in vita i prigionieri di tutto il
Paese fino a quando la famiglia non paga la somma imposta.”
“Così può
accadere che un ricco briccone torni subito in libertà, mentre un povero
disgraziato, colpevole di mancanza lieve,
rischi di restare per sempre in prigione.” gli fece eco il suo sceicco.
“Sono tanti i
condannati di queste prigioni?” domandò il lord.
“Capi ribelli…
contadini…”
“Capi
ribelli?” domandò sorpreso l’inglese; sapeva perfettamente che per quelle
popolazioni l’idea di “governo” era qualcosa di indefinibile e una ribellione
all’indefinibile era faccenda impossibile.
“Abd Errahm
El.Heulj, governatore di Salwah – spiegò Ibrahim – è appena stato deposto per
inadempienza all’ordine di riscossione di imposte religiose da versare al
Sultano.”
“Capisco!” si
limitò a rispondere il lord.
Sapeva bene,
l’inglese, che se un superiore cadeva in disgrazia, e il governatore di Salwah
era caduto in disgrazia presso il sultano di Doha, agli occhi della popolazione
diventava un uomo completamente abbattuto. Il concetto di fede, per quella
gente, pensava, era che tutto stava
nelle mani di Allah: il potente era
potente per volontà di Allah e per questo andava rispettato e ubbidito, ma se Allah
non lo riteneva più degno della sua divina protezione, non aveva più senso
ubbidirgli. E con questa logica, il lord sapeva bene anche questo, poteva
accadere che il più forte si rifacesse
sul debole, ma anche che il debole si
unisse ad altri deboli e ne nascessero capi a condurre ribellioni. Egli era
certo che fra quei prigionieri vi fossero ribelli e capi ribelli.
Fece l’atto di
replicare, ma le note del tandir di Selima, la Favorita di Rashid, lo fermarono.
(continua)
(continua)
brano tratto da "DUNE ROSSE - Fiamme sul deserto"
di MARIA PACE
su AMAZON o direttamente presso l'autrice SCONTATO ED AUTOGRAFATO
mariapace2010@gmail.com
mariapace2010@gmail.com
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